Cultura

Canosa e le sue tombe: tra Banfi, l’Unesco e il Museo

Luigi Di Gioia
Ipogeo del Cerbero
Canosa è considerata oggi, da studiosi ed esperti, il principale centro archeologico della Puglia, rappresentando uno dei casi più significativi di città a lunghissima continuità di vita
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Ha fatto molto discutere la recente nomina di Lino Banfi nella “Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco”, nonché generato risate e ilarità, quasi più delle sue “battute” più riuscite, la sua affermazione riguardo alle «tombe etrusche ed egizie» di Canosa di Puglia «comunque bellissime», in una recente intervista al Corriere della Sera[1].

Forse è la prima volta che Banfi parla della città della sua infanzia in riferimento al patrimonio archeologico; solitamente è citata nei suoi film o in aneddoti e ricordi affettivi e sentimentali nei rotocalchi televisivi di cui è stato protagonista. La città non ha avuto la fortuna di dare i natali al celebre poeta Orazio, come la vicina Venosa, e si è pertanto dovuta accontentare di aver visto correre tra i suoi vicoli il piccolo Pasquale Zagaria, figlio di Riccardo “l’Andriese”. Nell’immaginario collettivo Canosa è (e resterà?) “la citta di Lino Banfi”, malgrado tutto. Nonostante la sua storia plurimillenaria e il suo rilevante patrimonio culturale.

In realtà, pochi ne sono a conoscenza extra moenia, Canosa è considerata oggi, da studiosi ed esperti, il principale centro archeologico della Puglia, rappresentando uno dei casi più significativi di città a lunghissima continuità di vita. Canusium non è, sotto questo aspetto, una “scoperta” recente. Tappa fondamentale del Grand Tour in Magna Grecia, ha destato la curiosità di eruditi e l’interesse tra gli antiquari già dal Settecento: dall’abate Damadeno (1723) a Johann Hermann von Riedesel (1767), barone di Eisenbach, corrispondente del Winckelmann; dal prevosto Angelo Andrea Tortora (1758) a Jean-Claude Richard de Saint-Non (1783), passando per il canonico Francesco Maria Pratilli, che così la descrive nel 1745: «Veggonsi in Canosa meraviglie di antichità nientemeno di quelle che sono a Baia e a Pozzuoli, con frequenti rovine di edifici, di palazzi, di templi e di anfiteatri e con moltissimi spezzoni di colonne e di statue». La fama dell’insediamento daunio, della città romana e tardoantica era loro nota dalle fonti letterarie classiche.

Ma è soprattutto nell’Ottocento, con la ripresa dell’attività edilizia a seguito di un incremento demografico e di una crescita dell’economia locale, che l’archeologia canosina balza agli onori delle cronache, all’interno di quel clima nel Regno di Napoli “surriscaldato” dalle grandi scoperte archeologiche, iniziate nei decenni precedenti sotto lo sguardo “inquietante” del Vesuvio. Tra cantieri edili, scoperte casuali, scassi clandestini e missioni borboniche di scavo, prende il via nella cittadina ofantina la cosiddetta “archeologia di rapina”: da un verso, una spasmodica ricerca antiquaria dei “bei vasi” e dei “tesori”, con relativa e conseguente dispersione di questi tra musei e collezioni private, ben lontani dai luoghi del ritrovamento; dall’altro, un desolante abbandono delle architetture funerarie. Risale, infatti, al 1813 il primo grande rinvenimento di un ipogeo canosino: la Tomba Monterisi-Rossignoli.

Sebbene la scoperta sia immediatamente pubblicata dal Millin (1816), l’ipogeo viene abbandonato e il materiale del corredo funerario finisce in piccola parte al Museo di Napoli, il resto irrimediabilmente disperso, mentre tre capolavori della pittura vascolare italiota, attribuiti al Pittore dell’Oltretomba, seguono Caroline Murat sulla nave che la porta via da Napoli, dopo la caduta del governo francese nel 1816. E così sarà per tutte le successive scoperte preunitarie: “tesori” inestimabili che, da un lato desteranno l’interesse di studiosi e archeologi di fama internazionale, dall’altro alimenteranno una piccola economia locale tra tombaroli, famiglie canosine intermediarie e il circuito distributivo nelle mani della Real Casa di Borbone.

Così sarà anche per le scoperte postunitarie e del Novecento, come la Tomba degli Ori (1928), i cui corredi (coppe di vetro con lamina d’oro, vasi canosini a decorazione plastica e policroma, suppellettili in argento e in oro, esemplari testimonianze della toreutica e dell’oreficeria tarantine, tra cui il celebre diadema e l’altrettanto celebre teca a forma di conchiglia con inciso il nome della fanciulla Opaka Sabaleidas), dopo alterne vicende, saranno definitivamente esposti al Museo di Taranto. E poi ancora i saccheggi dei tombaroli, le distruzioni dell’edilizia “selvaggia”, gli scavi della Soprintendenza, le campagne e le ricerche delle diverse università, la nascita della Fondazione Archeologica Canosina (1993).

Di tutto ciò oggi resta, nonostante tutto, una rilevante eredità culturale: dai reperti esposti nei principali musei internazionali a quelli conservati nelle sedi museali canosine (Palazzo Sinesi, Palazzo Iliceto, Museo dei Vescovi, Antiquarium di San Leucio), dalle vestigia romane a quelle altomedievali, dalla ceramica “plastica e policroma” di età ellenistica ai ritrovamenti di reperti egizi ed egittizzanti legati al culto isiaco in età domizianea, dalla necropoli daunia ai mausolei romani sulla Via Traiana, dall’icona bizantina alle sculture del romanico pugliese nella Cattedrale di San Sabino, dai mosaici paleocristiani al Mausoleo del principe crociato Boemondo I d’Altavilla, e via discorrendo.

In particolar modo, estremamente interessanti risultano le tombe ipogee di età ellenistica, diffusesi in Daunia a partire dal IV sec. a.C., realizzate per la sepoltura dei cosiddetti “prìncipi” dauni. Sono presenti due tipologie: “a grotticella” e “a camera”. Le prime sono costituite da uno o più ambienti ipogei, di forma tondeggiante o squadrata, con volta per lo più irregolare, ma anche a sezione ogivale o a botte. L’accesso è costituito da una scaletta o da un piano inclinato o, più raramente, da un pozzo circolare. L’ingresso è generalmente chiuso con grandi lastre monolitiche. Le seconde costituiscono una forma più curata, più ricca e monumentale della tomba a grotticella, di sicura derivazione ellenica.

La tomba può essere interamente costruita in blocchi (come avviene ad Arpi), oppure scavata nella parte inferiore e costruita in quella superiore, o interamente cavata nella roccia (come avviene a Canosa in presenza di potenti strati di “Calcarenite di Gravina”, roccia carbonatica sedimentaria di origine marina). La pianta della tomba a camera è regolare e squadrata e può consistere in un solo ambiente o in diversi, disposti, generalmente, in posizione simmetrica rispetto all’asse formato da dromos-camera, dando vita, attraverso ripetute aggiunte, a complesse piante cruciformi. Il dromos costituisce l’accesso alla tomba: si tratta di un lungo e largo piano inclinato o di un’ampia scala terminante in un vestibolo esterno, da cui si apre uno o più ingressi alla tomba, chiusi da possenti lastre monolitiche. L’interno è caratterizzato da soffitto generalmente piano o a doppio spiovente o con volta a botte.

Queste tombe sono contraddistinte anche dalla presenza di elementi decorativi di vario tipo: semicolonne o lesene sormontate da capitelli ionici o compositi, acroteri, cornici e listelli (come nelle cosiddette porte “doriche”), tutti in rilievo o a volte resi pittoricamente e tesi a costituire un vero e proprio naiskos (tempietto) sul prospetto dell’ingresso principale; soffitti a finte travature dipinte o scolpite; false finestre e ghirlande. A volte sono presenti scene scolpite a rilievo (Ipogeo dell’Oplita, Ipogeo Monterisi-Rossignoli) o figurate dipinte (Ipogeo del Cerbero, Ipogeo Schocchera B, Ipogeo Sant’Aloja), le cui acquisizioni in Daunia, specie quella della pittura parietale figurata, avvengono dall’esterno, dall’Etruria e dalla Campania etruschizzata.

Tutto ciò è patrimonio dell’umanità, a prescindere dall’Unesco. Dopo secoli di “archeologia di rapina”, Canosa – “la città di Lino Banfi” – negli ultimi anni, purtroppo con scarso successo, ha insistentemente fatto appello alle istituzioni riguardo alla necessità di organici e complessi interventi in materia di tutela e di valorizzazione del proprio patrimonio culturale. Urgono programmi e risorse per un nuovo modello di sviluppo, che vadano al di là dell’ennesima richiesta/promessa di un museo-contenitore. Ci resta, infine, un interrogativo paradossale: Canosa riuscirà oggi a mettere definitivamente nel cassetto il vecchio brand proprio con Banfi nelle istituzioni?

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

R. Cassano (a cura di), Principi, imperatori, vescovi. Duemila anni di storia a Canosa, catalogo della mostra (Bari, 27 gennaio-17 maggio 1992), Venezia 1992.

M. Corrente, Alcuni monumenti di architettura funeraria da Canosa, in Atti del XXVI Convegno Nazionale sulla Preistoria – Protostoria – Storia della Daunia (San Severo, 10-11 dicembre 2005), Tomo I, pagg. 275-298.

Archivio Storico Intesa Sanpaolo, «Salvi e intattissimi». La Banca Commerciale Italiana e la protezione degli Ori di Taranto (1943-1945), Monografie, n. 7, 2015.


[1] https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/19_gennai…

mercoledì 13 Febbraio 2019

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